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Lotta

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    La lotta agonistica venne praticata da tutti i popoli già in tempi remoti, ma fu in Grecia che raggiunse il più alto livello di notorietà e di perfezione. Sovrani, condottieri, filosofi, scrittori e artisti la tennero in grandissima considerazione, stimandola una scienza e un’arte, indispensabile per plasmare sia il fisico che il carattere. Non a caso se ne attribuiva l’invenzione agli Dei o agli eroi: Atena ed Ermes, Ercole e Teseo. Secondo lo storico Plutarco di Cheronea lo sport più antico fu proprio la lotta (pale), da cui derivò il termine palestra per indicare il luogo di allenamento degli atleti.
    Per l’ateniese Senofonte, discepolo di Socrate, i Greci avevano sviluppato la loro proverbiale astuzia nel costante esercizio della lotta.

    La prima cronaca dettagliata di un incontro di «dura» lotta risale ad Omero, che nel libro XXIII dell’Iliade descrisse con notevole sapienza tecnica il combattimento tra «l’immane» Aiace Telamonio e «il saggio maestro di frodi» Ulisse durante i giochi funebri in onore di Patroclo. Omero ha inserito «l’ostinata lotta» anche nel libro VIII dell’Odissea, tra le gare organizzate dal re dei Feaci Alcinoo in onore di Ulisse. La popolarità di cui godé la lotta è dimostrata dalla frequenza di citazioni letterarie e raffigurazioni artistiche.

    Queste testimonianze, sebbene siano spesso frammentarie e talora anche contraddittorie, ci aiutano a ricostruire con buona approssimazione le regole della lotta nel mondo greco. Nei giochi più antichi i lottatori indossavano una cintura, il perizoma, poi si affrontarono completamente nudi, dopo essersi frizionati il corpo con dell’olio di oliva e averlo ricoperto con un sottile strato di polvere. I combattimenti si svolgevano secondo le regole dell’orthe pale (lotta in piedi o perpendicolare) in una buca piena di sabbia per ammorbidire la violenza delle proiezioni al suolo. Per vincere era necessario che l’avversario toccasse per tre volte il terreno con una parte qualsiasi del corpo (per cui il vincitore era detto triakter). Se cadevano ambedue i concorrenti l’azione era ritenuta nulla. La lotta a terra si praticava solo in allenamento o nelle gare di pancrazio, mentre era consentito lo sgambetto. Dirigeva gli incontri un arbitro munito di una lunga verga che nell’iconografia appare bifida.
    Essendo le prese iniziali spesso decisive ai fini del risultato, gli atleti cercavano di sfruttarle al meglio per passare all’offensiva o quanto meno per bloccare l’iniziativa dell’avversario. I lottatori venivano sovente raffigurati mentre si afferravano le braccia, con le fronti a contatto. Platone, che aveva gareggiato a Delfi, scrisse che nella lotta bisognava mantenere l’equilibrio e difendersi da tre tipi di prese: alle braccia, al collo e ai fianchi. Non c’erano categorie di peso, poiché l’abilità veniva considerata preponderante sulla forza, come proverebbe la leggendaria vittoria di Atalanta su Peleo.
    Si distinguevano, però, due classi di età: i giovani, fino a 18 anni, e gli adulti, oltre i 18 anni, senza limite. A Nemea, a Corinto e alle Panatenee di Atene fu introdotta la classe degli “imberbi”.
    Le gare si svolgevano a eliminazione diretta. Gli accoppiamenti venivano sorteggiati dai giudici e se gli atleti erano in numero dispari (all’inizio o in una fase seguente), uno di loro passava direttamente al turno successivo. Costui veniva chiamato ephedros, ossia «che sta seduto». Anephedros era detto chi non usufruiva del vantaggio e doveva sudarsi la vittoria in ogni incontro, ricevendo perciò maggiori riconoscimenti in caso di successo finale. Con il termine aptos s’indicava il lottatore vittorioso in combattimento senza essere mai finito a terra. Anche un successo akoniti («senza polvere») era prestigioso per gli atleti, in quanto vincitori per la rinuncia dell’avversario, che riconosceva così la loro netta superiorità.?

    Secondo queste regole si svolgeva pure la prova di lotta inserita nel pentathlon. ?La lotta fu introdotta a Olimpia nel 708 a.C. dopo che per 17 volte si era gareggiato soltanto nella corsa. Il più grande lottatore dell’antichità fu Milone di Crotone, discepolo di Pitagora, vincitore 7 volte ai Giochi Olimpici (nel 540 a.C. tra i giovani, dal 532 al 512 tra gli adulti), 7 ai Pitici, 9 ai Nemei, 10 agli Istmici. Pur privilegiando le corse ippiche e il pugilato, gli Etruschi si appassionarono anche alla lotta, come testimoniano i numerosi affreschi nelle necropoli di Tarquinia e di Chiusi. I Romani non mostrarono meno interesse dei Greci e degli Etruschi per la lotta, se Virgilio scrisse che persino i defunti nell’Elisio si dilettavano a «lottare in fulva arena» (Eneide, VI).

    La lotta, però, venne essenzialmente considerata un esercizio preparatorio alla guerra e solo in età imperiale assunse il carattere di attività sportiva, ma di tipo professionistico. Le occasioni per organizzare delle gare di lotta sono sempre state numerose: cerimonie civili e religiose, feste agresti, successi militari, ecc. I premi in palio erano i più svariati, quali terre, oro, cariche pubbliche, simboli di prestigio, la mano di una principessa. Con gli incontri di lotta talvolta si decidevano le sorti di una battaglia, si amministrava la giustizia e si assegnavano i regni. Al XV secolo risale il trattato anonimo De la Palestra (ossia Sulla lotta), il primo testo italiano sulla disciplina, conservato alla Biblioteca Estense. Verso la metà dell’Ottocento la lotta rifiorì grazie alle spettacolari esibizioni di atleti professionisti che combattevano nelle piazze, nelle “baracche” e nei caffè-concerto di tutta Europa: uomini dalla faccia feroce e dai muscoli d’acciaio, con grandi baffi e dozzine di medaglie al petto. La lotta greco-romana è entrata nel programma delle Olimpiadi moderne già nel 1896, la lotta stile libero nel 1904, la lotta femminile nel 2004.

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